Se prendete in mano un libro di cucina o una rivista specializzata, ascoltate una trasmissione a tema gastronomico o leggete un sito web culinario, vi sarete accorti che spesso le ricette vengono accompagnate da tutta una serie di consigli, trucchi e accorgimenti tecnici vari. Alcuni sono veri, altri sono falsi, altri sono palesemente assurdi: credete davvero che mettere un turacciolo nell’acqua di cottura serva ad ammorbidire un polpo? O che mentre ha le mestruazioni una donna riesca a far “impazzire” la maionese?
Nonostante la falsità di alcuni consigli, questi continuano a sopravvivere, trascritti da ricetta a ricetta, copiati e ricopiati senza spirito critico. Cucinare è un’attività principalmente pratica, “sperimentale” direi. Sarebbe lecito quindi pensare che con gli anni i cattivi consigli spariscano da soli, eliminati dalla pratica quotidiana dei cuochi. Così non è invece. Uno dei motivi del persistere di quelli che io chiamo “miti culinari” è probabilmente l’attitudine che generalmente si ha verso le ricette: si cerca di replicarle alla lettera senza chiedersi il perché delle cose. Soprattutto in un paese come l’Italia che ha il culto, forse un poco ossessivo, della propria tradizione gastronomica.
Il modo migliore per verificare se un consiglio funziona veramente è di cucinare due piatti, uno seguendo la ricetta alla lettera l’altro tralasciando il consiglio “sospetto”, e misurarne le caratteristiche finali, anche con un confronto alla cieca se necessario. Questo però non viene quasi mai fatto, e i miti persistono. In altri casi il mito sopravvive perché in realtà è ininfluente ai fini della preparazione. Pensate al turacciolo citato sopra: se ad esempio la sua aggiunta rendesse molto amaro il polpo, questo consiglio non sarebbe sopravvissuto a lungo. Invece è semplicemente ininfluente, e molti aggiungono il turacciolo perché “tanto male non fa”.
Ho così deciso di dedicare una serie di articoli a questi “miti culinari”, nella speranza di riuscire ad eradicarne almeno qualcuno ed a convincervi che, nonostante quando dica la tradizione, le ricette vanno sempre guardate con occhio critico e scientifico, chiedendosi sempre il perché, e senza avere paura di cambiarle, se scoprite un errore.
Sigillare la carne previene la perdita dei succhi?
Cominciamo da un mito che, ironia della sorte, ha origine proprio da un suggerimento di un famoso scienziato. Avrete sicuramente sentito dire che “sigillare la carne previene la perdita dei suoi succhi”. Per sigillatura si intende una rosolatura o scottatura veloce della superficie esterna di un pezzo di carne, per poi continuare la cottura a temperature più basse, sia in padella che nel forno, o alla brace o in pentola. L’idea è che la sigillatura produca una crosticina che, in qualche modo, riesce a tenere imprigionati i succhi della carne durante la cottura.
Questo mito è falso. La sigillatura della carne non previene la perdita dei succhi. Questa idea, apparentemente sensata perché si rifà alla tecnica di cauterizzazione delle ferite, è stata enunciata per la prima volta da un chimico molto famoso: Justus von Liebig. Scienziato versatile e capace, ad un certo punto della sua carriera decise di occuparsi delle piante e degli animali, studiandone la loro chimica. Fu il primo a concepire l’importanza dell’azoto e dei sali minerali nella crescita delle piante, e si può dire che “inventò” in concetto di fertilizzante chimico. I suoi studi sugli animali lo portarono ad inventare un processo per produrre il famoso “estratto di carne Liebig” che lo rese famoso ben oltre la cerchia degli scienziati. Ancora oggi, essenzialmente lo stesso prodotto e con lo stesso nome, lo potete trovare nei supermercati. Nel 1847 pubblicò il libro Researches on the chemistry of food dove tra le altre cose enunciò la teoria che la superficie della carne, esposta ad alte temperature, si “sigilla”, impedendo successivamente ai succhi di cuocere. La grande fama di cui godeva Liebig fece si che questa teoria vennisse immediatamente accettata, anche dai cuochi. Auguste Escoffier, il famoso chef francese, ad esempio la citò nel suo libro Le Guide Culinarie del 1903.
L’errore di Liebig, abbastanza grave per uno scienziato, fu quello di non sottoporre le sue idee ad una prova sperimentale. In fondo non sarebbe stato molto difficile: bastava avere due padelle, due bistecche, una bilancia e un termometro. Fatto sta che il mito della sigillatura cominciò a dilagare.
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